Perché le Startup falliscono? Conoscere i dati per massimizzare le possibilità di successo

Fallimento Startup

Quante Start up falliscono?

Il 95% circa delle startup fallisce entro i primi 4 anni di vita. Non riesce, in altre parole, a superare neppure la fase iniziale della propria vita e consolidarsi come azienda.

Ma perché la mortalità delle startup è così elevata?

C’è un interessante studio di CB Insight, pubblicato nel 2021, che ha raccolto e analizzato i motivi del fallimento partendo da un vasto campione statistico e raggruppando i problemi incontrati in alcune categorie principali.

 

Tutte le grandi aziende un tempo sono state startup, infatti; ma certo non tutte le startup diventano grandi aziende, neppure quando l’idea alla loro base è geniale.

Anzi: come vedremo nell’articolo, generalmente i problemi sono collegati a fattori organizzativi, di pianificazione, di studio del mercato o di raccolta dei finanziamenti. Un’idea brillante non è certo condizione sufficiente per il successo.

 

Vediamo, quindi, quali sono i fattori di fallimento più comuni nelle startup: conoscere gli errori da evitare è un ottimo modo per massimizzare le chance di successo dei propri progetti.

 

Fallimento delle Startup: i principali motivi

Riprendiamo i dati salienti dello studio di CB Insight.

L’elenco completo dei 12 motivi principali del fallimento di una startup è disponibile al seguente link:

https://research-assets.cbinsights.com/2021/07/29095307/top-reasons-startups-fail-v2.png

  1. Carenza di capitali / scarsa capacità di coinvolgere gli investitori – 38%
  2. Mancanza di richiesta da parte del mercato 35%
  3. Incapacità di battere la concorrenza20%
  4. Business model non adeguato – 19%
  5. Problemi di tipo legale – 18%
  6. Pricing errato / problemi di costi – 15%
  7. Team non corretto – 14%
  8. Prodotto sbagliato – 10%
  9. Prodotto scarso – 8%
  10. Disarmonia tra team e investitori – 7%
  11. Pivot errato (mancanza di un cambio di rotta necessario, o errori nel cambio) – 6%
  12. Abbandono del progetto per motivi personali o burnout – 5%

 

Il primo dato interessante da sottolineare è che i primi quattro-cinque motivi sono particolarmente ricorrenti, che da soli rappresentano la quasi totalità delle casistiche.

Il secondo, è che queste motivazioni e questo ordine di importanza tende a mantenersi uguale, anno dopo anno. I problemi che portano al fallimento di un progetto, in altre parole, non sono quasi mai degli elementi imprevisti e imprevedibili, ma possibili criticità ben note a chi si occupa di programmazione economica e finanziaria.

Un dato importante, questo, perché fa riflettere su come molti fallimenti potrebbero essere evitati se dietro a ogni progetto ci fosse una programmazione più attenta o una maggiore consapevolezza dei rischi.

 

No market needs: quando manca la domanda di mercato

Dato che si tratta del campo in cui lavoriamo, quello che vogliamo commentare è soprattutto il secondo motivo di fallimento delle startup, presente in ben in 35% dei casi di fallimento: la mancanza di una domanda di mercato.

A prima vista sembrerebbe scontato che chi apre una startup vuole soddisfare una domanda di mercato: ma cos’è, davvero, questa domanda? E in quanti modi si declina?

I concetti di domanda, differenziazione, innovazione infatti sono molto meno chiari e netti di quello che si è portati a credere.

 

Nei prossimi paragrafi andremo ad approfondire proprio il concetto di market need, partendo da quello di domanda latente.

 

La domanda latente in un mercato esistente

La domanda è uno dei concetti-chiave di tutto il marketing strategico. La domanda latente è una delle possibili forme che questa domanda può assumere: di solito, una startup cerca appunto di intercettare una domanda latente, presente ma ancora non soddisfatta.

 

Domanda latente significa che nel mercato c’è un problema, ma non una soluzione immediata; di fronte alla possibile soluzione, quindi, il potenziale acquirente acquista coscienza del suo bisogno e procede con l’acquisto del prodotto/servizio che può risolverlo (e che prima non esisteva, o di cui non conosceva l’esistenza).

Se utilizziamo la modellizzazione del marketing funnel, “domanda latente” è il termine che utilizziamo, non sempre in modo proprio, per indicare chi si trova nella parte alta del funnel e che deve affrontare la discesa lungo il funnel fino alla conversione finale, in questo caso l’acquisto.

 

Un esempio semplice: un proprietario di animali domestici che ha un aspirapolvere comune, non molto potente, in teoria è il portatore di una domanda latente verso un aspirapolvere più potente, in grado di eliminare il pelo di cane o gatto in modo più efficace e con minore sforzo.

 

Questa situazione ha delle premesse ben precise che non coinvolgono solo il bisogno, ma anche la potenziale soluzione.

La soluzione proposta infatti deve essere un qualcosa di facilmente comprensibile e recepibile dal potenziale cliente. Di fatto, deve essere una variante di qualcosa già esistente (più bello, più potente, più performante, meglio adattato per un utilizzo specifico).

 

Questa è la situazione che possiamo descrivere come domanda latente in un mercato già esistente e spesso maturo: l’obiettivo della startup è generare un bisogno laddove è giù presente un’opportunità.

 

Le implicazioni sulle strategie aziendali

Con queste premesse, il marketing riesce facilmente ad amplificare quello che è il bisogno di base, facendo percepire la nuova variabile di prodotto come estremamente desiderabile:

  • Come dire di no a un aspirapolvere più potente, visto che il pelo di animale è così difficoltoso da mandare via?
  • Come ignorare che un porta asciugamani nuovo, più bello ed elegante, rende l’ambiente più piacevole?
  • Nelle nostre vite sempre di fretta, quanto vale il risparmio di tempo dato da un nuovo accessorio per la cucina?
  • Eccetera eccetera…

 

Un nuovo business che si premunisce di rispondere a questo tipo di domanda latente avrà degli indubbi vantaggi (facilità nel far percepire la necessità al proprio cliente) e altrettante indubbie difficoltà.

Ad esempio, la presenza di una forte concorrenza; a questo proposito, molti imprenditori ribadiscono l’unicità della propria offerta in virtù della differenziazione del prodotto, ma quasi mai questo risponde al vero. La validità della differenziazione proposta la valuterà il mercato, e deve essere considerata così rilevante da giustificare un nuovo acquisto rispetto a un qualcosa di cui il potenziale cliente possiede già una qualche versione.

 

La domanda latente correlata all’innovazione

Quando si parla invece di innovazione profonda, le dinamiche sono molto più complesse.

I prodotti realmente innovativi sono quelli che riescono a intercettare un bisogno che ancora non esiste all’interno del mercato. Ad esempio, chi mai avrebbe immaginato il successo degli smartphone touch, quando tutti eravamo abituati a utilizzare i cellulari con i tasti?

Una celebre battuta di Herny Ford, illustra alla perfezione questo concetto: “Se avessi chiesto ai miei clienti cosa volevano, mi avrebbero risposto: un cavallo più veloce.”

 

Operare in uno scenario di questo tipo significa affrontare livelli di incertezza altissimi. Mentre è facilmente prevedibile che una certa quota di possessori di animali valuterà l’acquisto di un buon aspirapolvere alternativo a quello che ha già, è molto difficile prevedere la risposta a un qualcosa di potenzialmente utile, ma mai visto prima.

Le resistenze possono infatti essere di moltissimi tipi. Non di rado, un prodotto davvero innovativo deve combattere con resistenze legate all’abitudine, di tipo culturale più ampio (lo stiamo vedendo adesso, con le farine ricavate da insetti), o magari di infrastrutture (si pensi al problema delle colonnine di ricarica per le auto elettriche).

 

Vengono meno inoltre i tradizionali metodi di indagine, come le ricerche di mercato: nessuno darà una risposta attendibile, se chiamato a giudicare su una possibilità che di fatto non conosce.

Potrebbero essere più utili dei focus group, ma sono molto difficili da organizzare e possono comunque dare risultati distorti.

 

La Legge di Rogers e il baratro da superare

Fortunatamente, in soccorso delle startup innovative accorre la Legge di Rogers, modellizzata nella famosa Curva di Rogers.

Rogers ci ricorda che un prodotto innovativo non deve puntare direttamente a un mercato di massa, ma deve iniziare dal diffondersi presso un piccolissimo gruppo di innovatori prima, e di early adopters subito dopo.

È solo tramite questi passaggi che un prodotto può iniziare a farsi conoscere, mentre al contempo l’azienda può valutare e implementare rapidamente le modifiche necessarie a perfezionare la propria proposta.

 

Inutile, quindi, proporre pubblicità di massa per un qualcosa che nessuno ha mai visto prima: meglio rivolgersi a piccoli pubblici formati da persone più aperte all’innovazione, influencer di settore, che saranno i migliori alleati dell’azienda per far conoscere la novità a un pubblico più vasto.

Ignorare questi passaggi è un errore ricorrente di molte startup italiane che hanno ottime idee in termini di innovazione di prodotto, ma una scarsa capacità di individuare i percorsi, lunghi ma necessari, per arrivare a un buon volume di vendite (e di conseguenza sottovalutano anche i capitali necessari a sostenere questi stessi percorsi).

 

Il salto cruciale per questo tipo di prodotti è quello da early adopters a early majority: è qui che si trova il baratro (chasm in inglese) di cui parla Geoffrey Moore nei suoi testi, quel baratro sul quale si sfracella impietosamente la maggior parte dei progetti ad alto tasso di innovazione.

 

Quando questo baratro viene superato, invece, il prodotto si diffonde rapidamente presso un pubblico più vasto e la startup si trova proiettata verso il successo.

 

Gli investimenti pubblicitari in questo processo hanno un ruolo fondamentale. Si pensi al caso di Nespresso: il caffè in capsule non sarebbe probabilmente mai entrato nelle case di quasi tutti, se non fosse stato sostenuto da investimenti pubblicitari enormi e campagne di advertising perfettamente studiate.

 

Altri motivi del fallimento delle startup

In chiusura di questo articolo, vogliamo soffermarci su altri due fattori che portano al fallimento delle startup e che sono comunque legati al marketing.

 

Il primo è il pricing. Ci sono startup che falliscono perché sbagliano il prezzo dei prodotti: troppo alto, o troppo basso.

Non possiamo che ricordare che il prezzo non può essere il risultato solo di fattori tecnici legati ai costi di produzione o alla marginalità attesa ma che è un elemento fondamentale del marketing mix.

Ignorare le sue implicazioni può costare molto, molto caro. Un prezzo troppo alto (o, al contrario, così basso da generare sospetto nel consumatore) sono entrambi errori fatali.

 

Un altro dato interessante è quello legato a questioni legali, di licenze o regolamentazioni.

Abbiamo visto, ad esempio, aziende del settore food sottovalutare le difficoltà che si incontrano nell’esportare determinati prodotti; in altri casi di ci può scontrare con adempimenti legali molto più costosi del previsto, o regolamentazioni locali particolarmente severi che di fatto limitano l’attività. Anche in questi casi riscontriamo quindi una scarsa attenzione nel mettere a punto la propria offerta.

In alcuni casi, infine, un’azienda può essere persino portata a un incolpevole fallimento a causa di leggi nuove, più restrittive delle precedenti.

 

In conclusione

È impressionante come le cause che fanno fallire le startup siano sostanzialmente le stesse, anno dopo anno, e come tra queste sia centrale la mancanza di una domanda di mercato adeguata a sostenere il business.

Vi invitiamo quindi ad approfondire il concetto di domanda di mercato prima di investire tempo e capitali in un progetto troppo fragile fin dall’inizio, o di farne fallire uno che avrebbe avuto invece ottime potenzialità.

 

Nel caso di un prodotto che si inserisce all’interno di una domanda latente in presenza di un bisogno preciso, si può ricorrere con successo a strumenti di indagine tradizionali come ricerche di mercato o focus group.

Nel caso di prodotti innovativi, invece, che vanno a stimolare un bisogno che ancora non esiste, è invece necessario studiare con attenzione la curva di Rogers, seguirne con attenzione ogni passaggio e sostenerlo con gli investimenti adeguati.

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